venerdì 2 marzo 2012

Ubu Roi, Fortebraccio Teatro


Ubu Roi. 
Di Alfred Jarry

regia Roberto Latini
musiche e suoni: Gianluca Misiti
luci: Max Mugnai

con Robeto Latini, Savino Paparella, Ciro Masella, Sebastian Barbalan, Marco Jackson Vergani, Lorenzo Berti, Fabiana Gabanini, Simone Perinelli


Un pullman parte dall’autostazione di Bologna, e conduce il pubblico del capoluogo fino al Teatro Rasi di Ravenna, casa del Teatro delle Albe. L’atmosfera sul pullman è allegra e familiare, come se un gruppetto di persone più o meno intime tra di loro avesse deciso di andare a fare un salutino agli amici romagnoli, a prendere un tè dalle Albe: una piccola riunione di famiglia che tanto a teatro ci si fa’ e ci si vede e tutti si conoscono.

Appena arrivati al Rasi però la prospettiva cambia radicalmente: altro che riunione di famiglia, c’è una massa di persone tale che sembra di stare allo stadio ed io, spettatrice un po’ disillusa ed abituata ai teatri mezzi vuoti, non posso fare a meno di commuovermi e di pensare “allora c’è vita! Qualcuno ci crede ancora!”.

Fortebraccio Teatro porta in scena Ubu Roi, testo datato 1869 e scritto dal genio adolescenziale di Alfred Jarry: un testo che ha anticipato l’età delle avanguardie e del teatro dell’assurdo, diventato ormai un classico.

La storia narra le vicende di Padre Ubu, capitano dei Dragoni alla corte di Polonia il quale, spinto dalla brama di potere e soprattutto dalla sanguinaria madre Ubu, decide di uccidere il re (Re Venceslao) e tutta la sua corte, ritrovandosi così in breve a gestire un popolo in rivolta contro di lui ed una guerra. Molto della trama richiama il Macbeth, ma, a differenze dell’opera di Shakespeare, qui tutti i personaggi sono assolutamente grotteschi, esasperati, portati all’estremo della bassezza e dell’ingenuità. Inoltre la morale che alla fine emerge nel dramma shakespeariano qui è completamente assente.

Notte. Una grande luna illumina la scena dove un uomo siede di spalle, muto ed imobile. Piano piano la scena si popola di altri personaggi, tutti vestiti con lunghe tuniche bianche e con maschere glabre e deformi. I personaggi, tutti pescatori, siedono silenziosamente uno accanto all’altro e pescano nel vuoto della scena. Appesa all'estremità di ogni lenza vi è una salsiccia. Per ultimo entra un personaggio diverso, vestito in maniera differente che si affianca ai pescatori rimanendo però in piedi: appeso alla canna da pesca, al posto della salsiccia, ha un microfono. La scena è avvolta in un bianco quasi metafisico che andrà via via sporcandosi. Così inizia l’Ubu roi di Fortebraccio Teatro.

Roberto Latini, attore e regista della compagnia, abbandona (almeno temporaneamente) i suoi progetti solitari per tornare a danzare sulla scena insieme ad altri sette attori. L’assurdità del testo è notevolmente amplificata: le scene non seguono necessariamente una logica consequenzialità, i personaggi si alternano e si scambiano i ruoli giocando con maschere talvolta vere e talvolta frutto della recitazione, madre Ubu è un uomo coi baffi (un notevole Ciro Masella), il principe Bugrelao dimostra ben più dei suoi quattordici anni, la corona del Re Venceslao è un megafono, il suo trono una carriola e sulla scena appaiono e scompaiono oggetti senza un preciso significato apparente.

Roberto Latini veste il ruolo di un Pinocchio, sempre presente ma esterno all'azione: Una sorta di doppio, di coscienza della quale i personaggi di Padre e Madre Ubu sono completamente sprovvisti. Talvolta ha una catena legata al collo, oppure esegue un macabro passo a due con uno scheletro nero, o si avvolge in un drappo rosso svelandoci la violenza e la crudeltà delle bieche azioni dei protagonisti.

Il testo è infarcito di riferimenti a Shakespeare, non soltanto il Macbeth ma anche L’Amleto, la Tempesta e Romeo e Giulietta: Latini sceglie di enfatizzarle dando voce ai personaggi shakespeariani attraverso monologhi durante i quali la voce amplificata e la presenza del microfono con l’asta trasportano lo spettatore in un'altra dimensione. Da notare che nessuno di questi monologhi risuona come una pretestuosa citazione fatta a buon pro di un pubblico più o meno colto: tutti sono perfettamente contestualizzate, inseriti con precisione e frutto non di una volontà artificiosa ma di una forte urgenza; si potrebbe essere completamente digiuni di Shakespeare ed apprezzarne comunque la poesia.

La pièce viene letteralmente giocata dagli attori, che si divertono a passare da uno spazio all’altro, a crearsi dei limiti per poi violarli, a coreografare momenti corali per poi sporcarne volutamente la perfezione. Teli, macchinari di legno, maschere, costumi più o meno vistosi ed atmosfera a tratti quasi circense: tutto, richiama il gioco, l’artificio. Ma al tempo stesso risuona fin troppo reale in un’epoca in cui la guerra, la violenza, la sete di potere e l’immoralità non vengono mai prese troppo sul serio.

Tra un scena e l’altra due personaggi (un’orso e un’orsa), si inseguono in un corteggiamento rituale che mostra un amore tenero e naif, destinato però a concludersi nell’unico modo possibile in un mondo così violento.

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