Ubu Roi.
Di Alfred Jarry
regia Roberto Latini
musiche e suoni: Gianluca Misiti
luci: Max Mugnai
con Robeto Latini, Savino Paparella, Ciro Masella, Sebastian Barbalan, Marco Jackson Vergani, Lorenzo Berti, Fabiana Gabanini, Simone Perinelli
Un pullman parte dall’autostazione di Bologna, e conduce il
pubblico del capoluogo fino al Teatro Rasi di Ravenna, casa del Teatro delle
Albe. L’atmosfera sul pullman è allegra e familiare, come se un gruppetto di
persone più o meno intime tra di loro avesse deciso di andare a fare un
salutino agli amici romagnoli, a prendere un tè dalle Albe: una piccola
riunione di famiglia che tanto a teatro ci si fa’ e ci si vede e tutti si
conoscono.
Appena arrivati al Rasi però la prospettiva cambia
radicalmente: altro che riunione di famiglia, c’è una massa di persone tale che
sembra di stare allo stadio ed io, spettatrice un po’ disillusa ed abituata ai
teatri mezzi vuoti, non posso fare a meno di commuovermi e di pensare “allora
c’è vita! Qualcuno ci crede ancora!”.
Fortebraccio Teatro porta in scena Ubu Roi, testo datato
1869 e scritto dal genio adolescenziale di Alfred Jarry: un testo che ha
anticipato l’età delle avanguardie e del teatro dell’assurdo, diventato ormai
un classico.
La storia narra le vicende di Padre Ubu, capitano dei
Dragoni alla corte di Polonia il quale, spinto dalla brama di potere e
soprattutto dalla sanguinaria madre Ubu, decide di uccidere il re (Re
Venceslao) e tutta la sua corte, ritrovandosi così in breve a gestire un popolo
in rivolta contro di lui ed una guerra. Molto della trama richiama il Macbeth, ma, a differenze dell’opera
di Shakespeare, qui tutti i personaggi sono assolutamente grotteschi,
esasperati, portati all’estremo della bassezza e dell’ingenuità. Inoltre la morale che alla fine emerge nel dramma shakespeariano qui è
completamente assente.
Notte. Una grande luna illumina la scena dove un
uomo siede di spalle, muto ed imobile. Piano piano la scena si popola di altri
personaggi, tutti vestiti con lunghe tuniche bianche e con maschere glabre e
deformi. I personaggi, tutti pescatori, siedono silenziosamente uno accanto
all’altro e pescano nel vuoto della scena. Appesa all'estremità di ogni lenza vi
è una salsiccia. Per ultimo entra un personaggio diverso, vestito in maniera differente che si affianca ai pescatori rimanendo però in piedi: appeso alla canna da
pesca, al posto della salsiccia, ha un microfono. La scena è avvolta in un
bianco quasi metafisico che andrà via via sporcandosi. Così inizia l’Ubu roi di
Fortebraccio Teatro.
Roberto Latini, attore e regista della compagnia, abbandona
(almeno temporaneamente) i suoi progetti solitari per tornare a danzare sulla
scena insieme ad altri sette attori. L’assurdità del testo è notevolmente
amplificata: le scene non seguono necessariamente una logica consequenzialità,
i personaggi si alternano e si scambiano i ruoli giocando con maschere talvolta
vere e talvolta frutto della recitazione, madre Ubu è un uomo coi baffi (un
notevole Ciro Masella), il principe Bugrelao dimostra ben più dei suoi
quattordici anni, la corona del Re Venceslao è un megafono, il suo trono una
carriola e sulla scena appaiono e scompaiono oggetti senza un preciso
significato apparente.
Roberto Latini veste il ruolo di un Pinocchio, sempre
presente ma esterno all'azione: Una sorta di doppio, di coscienza della quale i
personaggi di Padre e Madre Ubu sono completamente sprovvisti. Talvolta ha una
catena legata al collo, oppure esegue un macabro passo a due con uno scheletro
nero, o si avvolge in un drappo rosso svelandoci la violenza e la crudeltà
delle bieche azioni dei protagonisti.
Il testo è infarcito di riferimenti a Shakespeare, non
soltanto il Macbeth ma anche L’Amleto, la Tempesta e Romeo e Giulietta: Latini sceglie di
enfatizzarle dando voce ai personaggi shakespeariani attraverso monologhi
durante i quali la voce amplificata e la presenza del microfono con l’asta
trasportano lo spettatore in un'altra dimensione. Da notare che nessuno di questi monologhi risuona come una pretestuosa citazione fatta a buon pro di un pubblico più o meno colto: tutti sono perfettamente contestualizzate, inseriti con precisione e frutto non di una volontà artificiosa ma di una forte urgenza; si potrebbe essere completamente digiuni di Shakespeare ed apprezzarne comunque la poesia.
La pièce viene letteralmente giocata dagli attori, che si
divertono a passare da uno spazio all’altro, a crearsi dei limiti per poi
violarli, a coreografare momenti corali per poi sporcarne volutamente la
perfezione. Teli, macchinari di legno, maschere, costumi più o meno vistosi ed
atmosfera a tratti quasi circense: tutto, richiama il gioco, l’artificio. Ma al
tempo stesso risuona fin troppo reale in un’epoca in cui la guerra, la
violenza, la sete di potere e l’immoralità non vengono mai prese troppo sul
serio.
Tra un scena e l’altra due personaggi (un’orso e un’orsa),
si inseguono in un corteggiamento rituale che mostra un amore tenero e naif,
destinato però a concludersi nell’unico modo possibile in un mondo così
violento.
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