domenica 25 novembre 2012

Low cost little black dress

How boring can life be. How curious can dreams get.
Climbing the ladder to my upstairs study, feeling ladylike and frigid, dreaming about Paris.

















Scared of the future....












Dress: H&M
Lace tights: Calzedonia
Mary Jane black suede shoes
Necklace: Dior imitation

Photos and set design: Simone Ugolini
Concept, styling, modelling: Sara K.


Once upon a time in a doll's house. Brocken bon ton

I am doll eyes
Doll mouth, doll legs
I am doll arms, big veins, dog bait
Yeah, they really want you, they really want you, they really do
Yeah, they really want you, they really want you, but I do too
I want to be the girl with the most cake
I love him so much it just turns to hate
I fake it so real, I am beyond fake
And someday, you will ache like I ache
Someday, you will ache like I ache

(Hole, "Doll Parts)


















Easy does it........






I fake it so real I am beyond fake....


Dress: Promod
Balck top: Intimissimi
tights: Calzedonia
Earing: Vintage
Ring: personal design item
hair band: accessorize
shoes: Bibi Lou

All photos by Simone Ugolini
Concept, styling, modelling: Sara K

mercoledì 11 aprile 2012

breakfast in the snow


Ormai, nonostante qualche temporale di stagione, possiamo dire che è ufficialmente arrivata la bella stagione. La settimana scorsa il sole ci ha baciato con i suoi raggi, ha fatto caldo e noi tutti abbiamo archiviato i piumini e le giacche pesanti e ci siamo crogiolati nel tepore primaverile.

Ma come dimenticare la storica nevicata che solo pochi mesi fa ha ricoperto la penisola ed in particolare la città di Bologna? Mezzo metro di neve ha ricoperto torri e portici rendendo pressoché impossibili gli spostamenti, creando un miscuglio di magia e disagio ed in generale facendo perdere la bussola ai poveri bolognesi poco avvezzi (nonostante la posizione geografica) alle precipitazioni invernali.

E ne sono successe di tutti i colori! Aziende e pubblici esercizi tutti chiusi per neve. Supermercati presi d’assalto e svaligiati stile preparazione al terzo conflitto mondiale. Cornicioni e grondaie crollati sotto il peso della troppa neve e del troppo ghiaccio. C’è chi si è murato vivo in casa per due settimane, chi ha fatto pupazzi di neve in Piazza Maggiore, chi ha inforcato gli sci di fondo per percorrere i viali, chi è uscito nel cuore della notte per danzare in mezzo ai fiocchi di neve…

Di particolare interesse uno soi-disant artista locale, che ha deciso di organizzare un’ altrettanto soi-disant performance trascinando per le vie del centro una ragazza nuda ma con gli slip d’ordinanza (sia mai che la buoncostume abbia qualcosa da opinare) chiusa dentro un sacco di plastica, dandoci così una chiara visione di cosa oggi venga considerato arte e di quali infiniti progressi abbiamo fatto in materia di tematiche di genere.

Io, che con un certo tipo di artisti condivido al massimo una certa smodata vanità, mi sono limitata a fare colazione sul balcone




poi sono stata colta da un improvviso attacco di caldo





e ho deciso di prendere un po' il "sole" rilassandomi e leggendo Vogue





godendomi la vacanza forzata e i vantaggi del non essere un' artista hipster.

Buona primavera a tutti.


* All photos by Carlo Strata
Post production: Jive Ph.
Ideazione e realizzazione: Sara K.

lunedì 2 aprile 2012

Alessandra Frabetti





La Strega Cattiva

“Mi viene da piangere”. Questo è l’incipit della mia conversazione con Alessandra Frabetti, attrice e docente di recitazione e dizione, militante di stanza a Bologna.
“Signora Frabetti, come lo vede il teatro oggi?” “ Mi viene da piangere”. I fatti proveranno in seguito che la sua è una risposta tutt’altro che circostanziale.

Ma perché quest’attrice, tanto temeraria sulla scena quanto impetuosa nella didattica , piange? Cos’è che le stringe il cuore?

“Dal 1979 in avanti la nostra società è caratterizzata da un grande down di pensiero. L’ avvento della tv commerciale ha causato un tremendo e crescente impoverimento culturale ed intellettuale, e il teatro (specchio della società) ovviamente ne risente. L’ avanguardia teatrale non è niente rispetto a quella che era nei decenni scorsi”.

Io stessa sono stata allieva della Signora Frabetti per un periodo: Come tanti altri ragazzi che studiano teatro a Bologna ho avuto l’onore di farmene urlare di tutti i colori dalla Signora in questione, di farmi tacciare di sciatteria, impeditezza, somaraggine e quant’altro. Ma, a differenza di molti altri miei compagni e predecessori, forse con suo rammarico, non ne sono mai stata terrorizzata. Non che i suoi metodi non fossero abbastanza rudi: è dagli anni ottanta che Alessandra Frabetti sperimenta tecniche terroristiche da utilizzare sui suoi allievi e penso che ormai, a forza di sperimentare, abbia raggiunto la perfezione. Ma non sono mai riuscita a togliermi dalla testa l’idea che tanto livore non potesse nascere che da un profondo amore per il teatro e per il lavoro dell’attore. Una persona capace di amare così profondamente una disciplina artistica che non regala nulla ed un mestiere che si nutre di passioni viscerali non può, ai miei occhi, essere veramente cattiva.

“La decadenza del teatro la si vede al giorno d’oggi anche nel lavoro dell’attore” continua la Signora Frabetti “Ne è una delle tante manifestazioni il proliferare di quello che una volta si chiamava teatro gestuale e che ora -a causa del dogmatismo miope e in malafede che crea dei tabù lessicali (tipo la parola “gesto” applicata al teatro) contribuendo così all’impoverimento- viene chiamato teatro fisico. Un certo di tipo di espressione corporea, a volte, è semplicemente un modo per mascherare lacune attoriali”.  Sostiene inoltre che anche la soi-disant autorialità di alcuni interpreti, a volte decisamente acerba, celi semplicemente l’incapacità di confrontarsi col lavoro dell’attore. “Prima di tutto bisogna saper essere Attori. Poi, eventualmente, autori”

La Frabetti rivolge poi l’attenzione ad un particolare aspetto dell’autorialità teatrale: La creazione artistica legata all’incontro. “Ci sono incontri, sia artistici che privati, legati assolutamente al caso. Altri invece sono frutto di una scelta ben precisa e pienamente consapevole. È necessario avere maturità e consapevolezza per scegliere razionalmente le persone e per far scaturire dall’incontro delle collaborazioni artistiche interessanti e paritarie.” “Certo” Continua poi leggermente lapidaria “è anche possibile fare incontri sbagliati. Il mio è stato decisamente un incontro sbagliato, da tutti i punti di vista. Posso dire, tranquillamente, che sono e sono sempre stata da sola. Niente di quello che ho ottenuto professionalmente lo devo al mio incontro”.

Tornando alla società e alla produzione teatrale, Alessandra Frabetti mi parla di Leo De Berardinis (al quale ha anche reso omaggio in un suo spettacolo, “Shakespeare in Death”). Mi racconta del teatro di Leo come emblema di un periodo che  io, purtroppo, non ho mai potuto conoscere, mi racconta dello splendore della ricerca e dell’innovazione delle epoche trascorse e di nuovo le si stringe il cuore.

“ Sono andata a vedere il Concerto di Nanni Moretti” mi racconta commossa. “E veramente mi viene da piangere se penso a quello che era, a quello che sarebbe potuto essere e a quello che è ora.
Ora che perfino menti geniali si sono imbibite di Berlusconismo e di ipocrisia.” “L’ipocrisia è un vizio alla moda” continua citando di nuovo Leo nel suo monologo del Don Giovanni.

E poi dice una cosa che mi vede pienamente d’accordo “Si è perso il sacrosanto valore della bellezza! Così come esisteva la Kalokagathia, che non a caso ha caratterizzato il momento di massimo splendore nella civiltà ellenica, sono certa che esiste al giorno d’oggi un’antikalokagathia.”. Quanto ha ragione su questo! Concordo pienamente con lei nel dire che se iniziassimo di nuovo a vedere, e anche a sentire, attraverso i parametri della bellezza tutto migliorerebbe. Vale anche per le persone, quando una persona è indegna, per forza di cose è anche brutta. Ne è un luminoso esempio proprio il nostro caro ex presidente del consiglio che, oltre ad essere mostruosamente brutto, ha scaraventato il paese nel culto della bruttezza.

Una domanda però, a questo punto, mi sorge spontanea. Se il panorama è così funesto, perché insegnare recitazione, assumendosi così la responsabilità nel bene o nel male di trasmettere un certo sapere alle generazioni future alle quali potrebbe di conseguenza venire in mente – orrore degli orrori – di fare gli attori in questo cimitero culturale? Per questo mio dilemma la Signora Frabetti ha una risposta molto chiara: “ Se non insegno io lo farà qualcun altro. Quindi tanto vale che lo faccia io” Chiaro no? “Inoltre è importante insegnare. In primo luogo perché non bisogna dare persa la guerra – perché di guerra si tratta- e in secondo luogo perché insegnando si ha la possibilità di trasmettere dei valori, innanzitutto dei valori etici che mettano poi gli allievi in condizione di crearsi dei valori estetici. Io cerco in primo luogo di insegnare il rigore e la disciplina.” Già, il rigore e la disciplina. Lei sa vero, Signora Frabetti, che lei ha la fama, nel panorama didattico bolognese, di essere la Strega Cattiva? “ Certo che lo so. E preferisco essere conosciuta così. È difficile fare la Strega Cattiva, sarebbe molto più semplic essere più tolleranti e meno rigorosi. Ma io sono figlia di Streghe Cattive, una fra tutte la Signora Messeri (Teatro Stabile di Genova). Non ho conosciuto altri metodi per la didattica e sono certa che questo sia l’unico metodo possibile. Inoltre bisogna preparare i ragazzi al mondo lavorativo esterno. Il lavoro dell’attore è un lavoro duro, difficile. Inoltre non mi è quasi mai capitato di lavorare con un regista senza subirne le invettive quindi è meglio che ci si abitui fin dalla scuola”.

E adesso? Cosa fa ora la Strega Cattiva, nonché attrice decisamente di spicco nel panorama attuale? “Sono tutto sommato soddisfatta del mio lavoro degli ultimi anni. Penso di essere cresciuta molto come attrice. Ma adesso… Ho ancora qualche replica, una commissione importante, ma  nessuna nuova produzione. E come fa un attore a crescere se non lavora?” Termina questa nostra decisamente intensa conversazione dicendo “Ma forse alcune realtà di produzione teatrale non vogliono che gli attori crescano, così non diventano troppo scomodi”. 

Io non aggiungo altro.


La Verità

domenica 25 marzo 2012

Dell'arte, del suo valore sociale, e della sua meravigliosa inutilità


Forse qualcun’ altro oltre a me avrà notato la tendenza generale che accomuna ultimamente festival, rassegne, concorsi e progetti artistici di varia natura: sempre più spesso sono caratterizzati da un elemento di valenza sociale. Non mancano di certo i temi umanitari e sociologici ai quali interessarsi e sui quali incentrare l’argomento di un festival o un bando di concorso, per non parlare di alcuni aspetti politici tipo l’ormai pluricitata democrazia partecipata. Gli argomenti più gettonati in assoluto riguardano comunque le tematiche ambientaliste.

Tutto questo potrebbe essere visto in maniera positiva: in linea di massima è infatti un bene che l’arte si metta al servizio di una causa senz’altro nobile come può esserlo l’ecologia ed utilizzi il suo potenziale in ambito comunicativo, aggregativo e mediatico per far passare messaggi importanti anche attraverso canali non convenzionali. Sono certa che la maggior parte degli enti che si occupano di promuovere l’arte come mezzo espressivo utile per le tematiche sociali, e che l’ adoperano come cassa di risonanza per temi di natura sociologica, sono armati delle migliori intenzioni e senza dubbio degni di lode.

Onore al merito quindi. Ma è sempre così?

Davanti ad una mole considerevole di progetti artistici legati a temi sociali non riesco a non essere colta da qualche perplessità. Per quanto sia vero che quelle che prima potevano essere considerate semplicemente buone pratiche ora stanno diventando emergenze, ed è quindi importante diffondere un certo tipo di cultura consapevole e creare occasioni di riflessione, mi sembra che abbinare sempre la produzione e la diffusione artistica ad una qualche causa sia un po’ pretestuoso. Dato il contesto storico nel quale ci troviamo, ovvero un’ epoca segnata dalla crisi economica e caratterizzata da politiche culturali decisamente spigolose, sembrerebbe quasi che l’arte abbia diritto ad essere valorizzata solo se legata ad uno scopo sociale e non possa permettersi di essere fine a se stessa.

Uno dei rischi è che pur di affrontare tematiche sociali, che a quanto pare sono il sine qua non della produzione artistica, si diffondano argomenti errati o comunque non sufficientemente approfonditi, cadendo nelle trappole della superficialità e dei luoghi comuni. Una sorta di “green washing” artistico. Quello che invece ormai più che un rischio sta diventando una realtà oggettiva è la mancanza del dovuto riconoscimento all’arte in quanto tale.

L’arte non ha già di suo un fortissimo valore sociale? Il valore politico, storico ed educativo non sono anch’essi valori sociali? E il sacrosanto valore estetico?  Non meriterebbe quindi di essere comunque valorizzata anche quando non tratta temi nobili come la green economy o le catastrofi belliche? Non è già di suo nobile? L’arte, e la cultura in generale, non sono forse quello che distinguono l’uomo dagli altri animali?

Un artista ha diritto di sentirsi socialmente utile solo se le sue opere affrontano determinati argomenti? E la programmazione artistica (festival, rassegne culturali ecc) è degna di nota –nonché di finanziamenti- solo se promuove determinati contenuti? Se facciamo un passo indietro nel tempo, non è forse stato uno dei più grandi artisti della storia a definire l’arte come qualcosa di inutile? Io penso che ciò nonostante il mondo risentirebbe della mancanza delle opere di Oscar Wilde!



martedì 20 marzo 2012

Hysteria. L'eccitante storia della nascita del vibratore


Londra, 1880. Il giovane dottore Mortimer Granville lotta per imporre le moderne e rivoluzionarie idee della medicina (tipo lavarsi le mani e cambiare tutti i giorni la fasciature) all’interno di ospedali ed ambulatori, gestiti però da medici fedeli alle vecchie tradizioni. Trovandosi così disoccupato per l’ennesima volta finisce per bussare alla porta del Dottor Dalrymple, specializzato in medicina femminile ed in particolare in una cura “manuale” per l’isteria.

La maggior parte delle donne dell’upper class sembra essere afflitta da questo male (che, come vedremo più avanti, altro non è che una manifestazione di noia o di insoddisfazione sessuale, per la quale, in effetti, la masturbazione può rappresentare talvolta un buon rimedio!) e il povero Dottor Dalrymple non è più fisicamente in grado di “soddisfare” tutte le sue pazienti. Decide così di avvalersi dell’aiuto di Granville.

In breve tempo il giovane Granville si ritroverà: alle prese con un’orda di pazienti insoddisfatte, a gestire una relazione platonica con Emily Dalrymple (figlia del dottore e modello di virtù), a cercare di contenere gli eccessi di Charlotte (sorella di Emily, socialista, rivoluzionaria e suffragetta) e, non ultimo, vittima di dolorosissimi crampi alla mano che rischiano di compromettere notevolmente la sua attività.

Proprio quando la situazione rischia di precipitare Mortimer, durante una visita al suo amico Edmund appassionato di elettronica, si ritroverà a giocherellare distrattamente con l’oggetto, camuffato da splolverino elettrico, che diventerà presto la soluzione ai suoi problemi “manuali” nonchè il giocattolo preferito di tante tante tante donne.

Il film, visione molto romanzata della nascita del vibratore, è stato tacciato dalla critica di essere un po’ troppo grezzo, superficiale e naif. Inutile dire che io invece ho riso dall’inizio alla fine. Ho riso per il fare scientifico con cui il Dottor Dalrymple illustra le tecniche masturbatorie al suo giovane assistente, ho riso davanti alla splendida interpretazione di Rupert Everett , ho riso davanti all’ironica ed appassionata visione del mondo e della donna di Charlotte Dalrymple, ho riso per Molly Leccalecca, ho riso all’idea del vibratore nato proprio nella pudica Inghilterra Vittoriana ed ho riso all’idea che la Regina Vittoria in persona ne facesse uso.

Il trailer di Hysteria

Ma soprattutto ho riso di soddisfazione perchè finalmente il main strem si è degnato di offrire un prodotto che affronta le tematiche della sessualità femminile e della condizione della donna in generale in maniera giocosa ed ironica, senza impantanarsi in banali stereotipi e psicologia spicciola e concentrandosi su un punto focale: il piacere. E finalmente il vibratore viene presentato come oggetto di uso comune, in voga da secoli e geniale nella sua praticità, e non come peccaminoso strumento del male!

"Not everyone loves football" : Promemoria per gli europei..

giovedì 15 marzo 2012

Sara K. goes on Style!

Per qualche strana coincidenza astrale mi è stato proposto di gestire un blog sul portale della rivista Glamour. Ergo mi destreggio attualmente tra due blog, cosa decisamente inusuale per una che, fino a poco tempo fa, non aveva facebook!

Ho chiamato il blog Smokey Eyes, in onore del celebre stile di maquillage tanto in voga adesso, ma anche delle celebri nottate fumose e del trucco sbavato della mattina dopo tanto in voga da sempre.

Questo è il link al blog numero due:  http://smokeyeyes.style.it/  Se vi va dateci un'occhiata.

E questo è il mio ultimo post che ho pubblicato su Smokey Eyes,  un'affascinante vicenda accadutami sul lavoro che dal titolo
"L'amore al tempo dei convegni: Il conte Vronskij è ancora tra noi".


Durante un convegno internazionale nel quale lavoravo in qualità di interprete e pr ho conosciuto una donna. Una donna molto affascinante, per la precisione: bella, intelligente, giovane ( 32 anni) ma già con una bella carriera. Una donna ambiziosa, piena di talento ma al tempo stessa simpatica e alla mano. Si chiama Kathy ed è del Canada. Un paese dove, incredibilmente, anche le donne giovani hanno la possibilità di fare splendide carriere, godono delle stesse opportunità degli uomini e, grazie a congedi per la maternità lunghi e a stipendi ottimi, hanno la possibilità di conciliare perfettamente il lavoro con la famiglia. Il lavoro. E l’amore?

Io e Kathy ci siamo subito piaciute. Abbiamo lavorato insieme per quattro giorni e per quattro sere ho portato fuori lei e i suoi colleghi, occupandomi della scelta e della prenotazione dei ristoranti, della scelta del cibo e dei vini, di spiegare ai camerieri che avevano tutti bisogno di ricevute separate per il rimborso spese aziendale, di controllare che i caffè fossero caffè lunghi e non  espressi in quanto i canadesi rabbrividiscono alla sola vista dei nostri “ristretti”, di chiarire che il limoncello anche se viene servito in bicchierini piccoli non è uno “shot” e di cercare pub che stessero aperti fino a tardi.

Il  lavoro diurno era molto serio ma le serate decisamente informali.

L’ultima sera, quando ogni restrizione lavorativa era finita e i rapporti interpersonali erano finalmente liberi da ogni convenzione, siamo finiti dopo cena (eravamo circa una quindicinali cui un’unica italiana e cioè la sottoscritta) in un pub in centro. L’orario della dignità era passato da un bel po’: era circa l’una di notte e tutti avevano in corpo un bel po’ di alcol. Anche io stavo cominciando a rilassarmi, mi ero concessa un gin-tonic e mi stavo finalmente dedicando ad approfondire la conoscenza di un simpatico dirigente dell’area vendite (sposato e con figli, figurati…).  Con la coda dell’occhio vedo la bella  Kathy, anche lei intenta ad approfondire conoscenze. In maniera molto più intima però di quanto non stessi facendo io col mio salesman. In parole povere si stava scambiando notevoli effusioni con quello che ho riconosciuto essere un suo buyer di nome Alan. Ho sorriso tra me e me ammirata per l’intraprendenza di Kathy e ho continuato la mia serata destreggiandomi come meglio potevo tra businessmen sbronzi.

Un paio d’ore più tardi (si, erano davvero le tre!) sono uscita dal pub per fumare una sigaretta e lì ho visto Kathy. Tutta sola e visibilmente scossa. Cosa cavolo era successo alla mia protegeè? E dove accidenti era Alan? Mi sono avvicinata a Kathy e lei scoppiata in lacrime. Mi ha raccontato tra un singhiozzo e l’altro che Alan, dopo aver flirtato con lei per una settimana e dopo averla baciata, le aveva detto che la loro storia non poteva continuare perché in Canada lui aveva già una ragazza con la quale stava da un mese e che aveva lasciato il suo lavoro per lui.

 “ E che lavoro! Faceva la shampista! Ma perché sono sempre L’Altra Donna, l’amante? È sempre così, gli uomini flirtano con me, vengono a letto con me e poi tornano dalle loro brave fidanzatine! Perché mi ha baciato se non vuole stare con me? Io sono un essere umano, ho dei sentimenti, voglio sposarmi e avere dei figli. Ho così tanto da dare e finisco sempre per fare l’amante!”

E a quel punto mi sono resa conto che quando si tratta di uomini tutto il mondo è paese. Kathy. Bella, sensibile ed intelligente, era semplicemente caduta nella trappola più vecchia della storia. Ma non aveva mai letto un libro? Non aveva mai visto “ Sex & the City”? e non lo sapeva che i convegni internazionali sono per eccellenza il teatro più idoneo per questo genere di commedia? Uomo d’affari in viaggio all’estero stufo della routine incontra bella donna in carriera e coglie l’occasione per crearsi un’interessante diversivo. E certo che non è giusto! Certo che è un bastardo! Ma la domanda è: cosa ti ha fatto pensare che potesse non esserlo?!

Ma quello che mi sembrava più surreale e che la povera ragazza non si capacitasse del fatto che un uomo potesse preferire stare con un’ex stampista, probabilmente non particolarmente attraente anziché con lei. Come se non fosse un dato di fatto infinitamente provato che gli uomini spesso e volentieri vogliono esattamente quello: una donna non troppo bella (così non la devono controllare) e senza carriera (così non sarà mai più potente di loro) e che, possibilmente, sia disposta a piantare il suo lavoro per favorire la loro carriera.

Siamo nel 2012 e gli uomini, rincresce dirlo, sono ancora terrorizzati da donne come Kathy. Non sono in grado di gestirle, hanno paura che li schiaccino e che mettano a repentaglio la loro virilità e non capiscono che una donna così vuole solo essere trattata da pari e godersi la sua indipendenza senza per questo rinunciare alla propria femminilità: non sono delle virago e non hanno nessun interesse a calpestare la virilità dei loro compagni. Sono donne, tutto qui.

Ma che spreco, che amarezza, vedere una donna così eccezionalmente fantastica ridotta in lacrime da uno dei tanti convenzionali stronzetti in circolazione.
A Kathy, e a tutte le Kathy del mondo, dal basso dei miei 28 anni, posso solo dire di rimanere fedeli a loro stesse perché il mondo ha bisogno di donne come loro. Che ci sono donne più giovani (tra le quali io) che le ammirano e le stimano e che non può essere uno squallidino qualunque a metterle in crisi. E che probabilmente da qualche parte ci sono anche uomini in grado di amare e rispettare una donna indipendente, e vale sicuramente la pena di aspettare di incontrarne uno -col rischio di non incontrarlo mai-  piuttosto che tradire i propri sogni e la propria natura per uno che non merita le lacrime di una donna, men che meno di una donna in gamba.

martedì 6 marzo 2012

c'è chi fa il poliziotto, e chi va rapinando pusher


Ed ecco che il mio martedì mattina, già macchiato dalla pioggia, è stato definitivamente rovinato dalla lettura del giornale. In particolare, la notizia che mi ha definitivamente avvelenato la giornata è la seguente: l’arresto di quattro poliziotti con l’accusa di rapine e violenza nei confronti di spacciatori maghrebini.

Ha un bel dire Merola che questa volta “non è la uno bianca”. No, certo che non lo è, nel senso che non siamo ancora a quel livello disgustoso di violenza ed abuso di potere, ma è inevitabile che reati di questo tipo, a Bologna, facciano pensare immediatamente ad una delle pagine di cronaca cittadina più nere.

Ma il problema non è solo lo spettro della uno bianca, quello che mi avvelena e il razzismo su cui si basano questi eventi. Già, perché in una città che, soprattutto sotto la giunta Cofferati, si è riempita la bocca di parole come “legalità” e “degrado” fino a farle diventare quasi degli insopportabili luoghi comuni, chi mai darebbe ascolto ad un pusher nordafricano che cerca di denunciare violenza e rapina per mano delle forze dell’ordine? Le stesse forze dell’ordine che qualche anno fa lanciarono una campagna in stile “chi difende i difensori”, come se le pistole non fossero loro ad averle. Uno degli uomini, sequestrato aggredito e rapinato, si è recato in questura a sporgere denuncia, ma non gli è stato dato ascolto.

E io, pur essendo troppo giovane per ricordarmi bene della uno bianca, ricordo benissimo altre vicissitudini. Ricordo la mia adolescenza trascorsa vivendo nella celeberrima via Petroni. Ricordo di quando c’erano le risse sotto casa, con coltelli e bottiglie. E io avevo imparato che dovevo sì chiamare la polizia, ma non dovevo dire che erano extracomunitari, altrimenti non sarebbero mai intervenuti e avrebbero lasciato che si uccidessero a vicenda.

E ricordo, già che ci siamo, forze dell’ordine decisamente poco accoglienti, che quando ti rivolgevi a loro per fare una semplice segnalazione manco ti ascoltavano se prima non ti facevi identificare. Ricordo una ragazzina tanto punk quanto innocua perquisita per strada (controllo preventivo), o costretta ad alzarsi se si sedeva per terra – dato che non ci sono panchine - in Piazza Verdi a godersi un pomeriggio di sole (decreto contro il bivacco).

Ricordo infine che in via Petroni non mi è mai successo nulla, né di giorno né di notte. E non grazie alle cinquanta volanti paralizzate in Piazza Verdi che non si muovevano mai neanche di un millimetro e che non si sognavano di andare a dare un’ occhiata a quello che succedeva esattamente alle loro spalle. Ma grazie al fatto che in via Petroni c’era sempre gente comune disposta ad intervenire se vedevano una ragazza in difficoltà. C’erano locali nei quali infilarsi se qualcuno ti seguiva e se nel cuore della notte per strada una donna urlava la gente scendeva a vedere cosa stava succedendo. Anche in pijama se necessario. E capitato addirittura che fossero i pusher stessi a redarguire un qualche loro particolarmente molesto “collega” e poi ad accompagnarmi fin sotto casa!

Chi difende i difensori? Chiedetelo ad una Bologna che si è più volte difesa da sola con la solidarietà e che oggi impallidisce davanti ad un tragico fatto di cronaca e ai brutti ricordi.

Ad onor del merito (o semplicemente dello scrupoloso svolgimento del proprio lavoro): Il procuratore aggiunto Valter Giovannini ed il sostituto procuratore Manuela Cavallo che hanno dato credito alle accuse mosse contro i loro colleghi e aperto l’inchiesta.

lunedì 5 marzo 2012

Balenciaga fall - winter collection 2012/2013


Gli anni 60 sono caratterizzati da un generale benessere economico e sociale. La gente risente ancora degli effetti benefici del boom economico, sta bene, è felice o almeno si sente in dovere di esserlo. Proprio in questo periodo storico inizia a manifestarsi l’idea della conquista dello spazio. L’universo, complice la Nasa, viene visto per la prima volta come raggiungibile: un luogo sconfinato, meraviglioso, che davvero un giorno potrà essere alla portata dell’uomo. Le persone, serene ed ottimiste, si concedono di sognare: si commuovono davanti al primo viaggio sulla luna, seguono con entusiasmo il lancio dei satelliti e guardano al futuro come all’espressione di massima potenzialità dell’uomo. Tutto questo andrà avanti almeno fino ai primi anni ottanta non risentendo particolarmente né del Vietnam, né del 68 né del 77. Gli uomini – e anche le donne, che finalmente raggiungono un certo tipo di emancipazione –continueranno a credere nel proprio potenziale e a guardare al futuro con grande fiducia ed aspettativa. La conquista dello spazio è un sogno finalmente concretizzabile che riempie l’umanità di orgoglio.
Poi cosa succede? Verso la fine degli anni ottanta inizia ad infrangersi il mito. Non tanto il mito dello spazio, quanto quello dell’operato umano: la coscienza ecologica mostra un pianeta gravemente danneggiato, le vicissitudini politiche ed economiche portano ad una crescente preoccupazione e, va da se, che quando si è preoccupati non ci si concede tanto tempo per fantasticare tra le stelle. Il sogno dell’uomo nello spazio comincia a sfumare e dopo le prime foto satellitari anche l’universo comincia a perdere un po’del suo fascino. Il 28 gennaio 1986 uno shuttle con a bordo anche una maestra di scuola esplode in volo sotto lo sguardo sgomento del presenti: se non è la fine di un sogno, ci andiamo decisamente vicino.
E oggi? Oggi c’è la crisi, la delusione, lo sconforto. Il futuro rappresenta perlopiù una minaccia tanto quanto il presenta rappresenta una condizione scomoda. Lo spazio e tutto il suo meraviglioso potenziale sembra ora più che mai lontano. Nell’era dell’insicurezza il passato rappresenta la stabilità e la tendenza generale, in particolare della moda, è quella di guardarsi indietro rievocando vecchi splendori con velata nostalgia. L’uomo non può non essere fortemente disilluso: destabilizzato si interroga sulla sua potenza e sulle sue prospettive. L’uomo.
E la donna? La donna va avanti. Procede inesorabile, fiera, se non altro, di essere donna. Abituata alle difficoltà e agli ostacoli, il futuro per lei è ignoto ma non si fa spaventare dall’incertezza. Quella di oggi è già la donna del futuro, di un futuro che fino a poco tempo fa sembrava irraggiungibile: bella nelle sue diversità, orgogliosa della sua femminilità, padrona delle sue decisioni in tutti i campi. Non teme né il giudizio né il confronto e rifugge gli archetipi, gli stereotipi e le etichette. Non si accontenta dei soliti canonici ruoli ma sperimenta, mescola, spazia. Incarna una femminilità multi sfaccettata, alla ricerca della propria individualità ed autodeterminazione.
Guardo la collezione autunno – inverno di Balenciaga, realizzata da Nicolas Ghesquière e ispirata a 2001: Odissea nello spazio e mi appare come un omaggio alla donna contemporanea e al suo avvenire. Non ci vedo né nostalgia né rimpianto, ma una ventata di ottimismo: lo spazio, simbolo di un futuro di sconfinata meraviglia, viene riproposto come una possibile iconica bellezza, ma la donna non è più patinata e monolitica come quella di Kubrick: è morbida, voluttuosa e valorizzata nel suo essere. Una donna che non ha paura, nemmeno degli alieni!

Di seguito foto della sfilata di Balenciaga a Parigi














venerdì 2 marzo 2012

Ubu Roi, Fortebraccio Teatro


Ubu Roi. 
Di Alfred Jarry

regia Roberto Latini
musiche e suoni: Gianluca Misiti
luci: Max Mugnai

con Robeto Latini, Savino Paparella, Ciro Masella, Sebastian Barbalan, Marco Jackson Vergani, Lorenzo Berti, Fabiana Gabanini, Simone Perinelli


Un pullman parte dall’autostazione di Bologna, e conduce il pubblico del capoluogo fino al Teatro Rasi di Ravenna, casa del Teatro delle Albe. L’atmosfera sul pullman è allegra e familiare, come se un gruppetto di persone più o meno intime tra di loro avesse deciso di andare a fare un salutino agli amici romagnoli, a prendere un tè dalle Albe: una piccola riunione di famiglia che tanto a teatro ci si fa’ e ci si vede e tutti si conoscono.

Appena arrivati al Rasi però la prospettiva cambia radicalmente: altro che riunione di famiglia, c’è una massa di persone tale che sembra di stare allo stadio ed io, spettatrice un po’ disillusa ed abituata ai teatri mezzi vuoti, non posso fare a meno di commuovermi e di pensare “allora c’è vita! Qualcuno ci crede ancora!”.

Fortebraccio Teatro porta in scena Ubu Roi, testo datato 1869 e scritto dal genio adolescenziale di Alfred Jarry: un testo che ha anticipato l’età delle avanguardie e del teatro dell’assurdo, diventato ormai un classico.

La storia narra le vicende di Padre Ubu, capitano dei Dragoni alla corte di Polonia il quale, spinto dalla brama di potere e soprattutto dalla sanguinaria madre Ubu, decide di uccidere il re (Re Venceslao) e tutta la sua corte, ritrovandosi così in breve a gestire un popolo in rivolta contro di lui ed una guerra. Molto della trama richiama il Macbeth, ma, a differenze dell’opera di Shakespeare, qui tutti i personaggi sono assolutamente grotteschi, esasperati, portati all’estremo della bassezza e dell’ingenuità. Inoltre la morale che alla fine emerge nel dramma shakespeariano qui è completamente assente.

Notte. Una grande luna illumina la scena dove un uomo siede di spalle, muto ed imobile. Piano piano la scena si popola di altri personaggi, tutti vestiti con lunghe tuniche bianche e con maschere glabre e deformi. I personaggi, tutti pescatori, siedono silenziosamente uno accanto all’altro e pescano nel vuoto della scena. Appesa all'estremità di ogni lenza vi è una salsiccia. Per ultimo entra un personaggio diverso, vestito in maniera differente che si affianca ai pescatori rimanendo però in piedi: appeso alla canna da pesca, al posto della salsiccia, ha un microfono. La scena è avvolta in un bianco quasi metafisico che andrà via via sporcandosi. Così inizia l’Ubu roi di Fortebraccio Teatro.

Roberto Latini, attore e regista della compagnia, abbandona (almeno temporaneamente) i suoi progetti solitari per tornare a danzare sulla scena insieme ad altri sette attori. L’assurdità del testo è notevolmente amplificata: le scene non seguono necessariamente una logica consequenzialità, i personaggi si alternano e si scambiano i ruoli giocando con maschere talvolta vere e talvolta frutto della recitazione, madre Ubu è un uomo coi baffi (un notevole Ciro Masella), il principe Bugrelao dimostra ben più dei suoi quattordici anni, la corona del Re Venceslao è un megafono, il suo trono una carriola e sulla scena appaiono e scompaiono oggetti senza un preciso significato apparente.

Roberto Latini veste il ruolo di un Pinocchio, sempre presente ma esterno all'azione: Una sorta di doppio, di coscienza della quale i personaggi di Padre e Madre Ubu sono completamente sprovvisti. Talvolta ha una catena legata al collo, oppure esegue un macabro passo a due con uno scheletro nero, o si avvolge in un drappo rosso svelandoci la violenza e la crudeltà delle bieche azioni dei protagonisti.

Il testo è infarcito di riferimenti a Shakespeare, non soltanto il Macbeth ma anche L’Amleto, la Tempesta e Romeo e Giulietta: Latini sceglie di enfatizzarle dando voce ai personaggi shakespeariani attraverso monologhi durante i quali la voce amplificata e la presenza del microfono con l’asta trasportano lo spettatore in un'altra dimensione. Da notare che nessuno di questi monologhi risuona come una pretestuosa citazione fatta a buon pro di un pubblico più o meno colto: tutti sono perfettamente contestualizzate, inseriti con precisione e frutto non di una volontà artificiosa ma di una forte urgenza; si potrebbe essere completamente digiuni di Shakespeare ed apprezzarne comunque la poesia.

La pièce viene letteralmente giocata dagli attori, che si divertono a passare da uno spazio all’altro, a crearsi dei limiti per poi violarli, a coreografare momenti corali per poi sporcarne volutamente la perfezione. Teli, macchinari di legno, maschere, costumi più o meno vistosi ed atmosfera a tratti quasi circense: tutto, richiama il gioco, l’artificio. Ma al tempo stesso risuona fin troppo reale in un’epoca in cui la guerra, la violenza, la sete di potere e l’immoralità non vengono mai prese troppo sul serio.

Tra un scena e l’altra due personaggi (un’orso e un’orsa), si inseguono in un corteggiamento rituale che mostra un amore tenero e naif, destinato però a concludersi nell’unico modo possibile in un mondo così violento.

lunedì 27 febbraio 2012

cineasti arcobaleno@visioni italiane


Si è chiuso ieri il festival Visioni Italiane, concorso nazionale per corto e mediometraggi presso il Cinema Lumière di Bologna.

Grande interesse e scalpore ha suscitato la presenza dei Cineasti Arcobaleno con il loro Kinodromo 01, il gruppo dei lavoratori indipendenti degli audiovisivi formatosi in novembre e già attivo e presente sul territorio.

I Cineasti Arcobaleno si riuniscono a cadenza quasi settimanale in assemblee democratiche e aperte a tutti, si interrogano sul presente e sul futuro del cinema indipendente, credono nel cinema come “bene comune” e portano avanti il progetto Kinodromo cercando di elaborare strategie e contenuti per incrementarne la produzione e la fruizione . Hanno realizzato ormai diversi cortometraggi e video virali -cliccatissimi sul web- e riscosso un’attenzione mediatica tale da arrivare fino agli uffici della Cineteca che ha deciso di offrirgli spazio e visibilità all’interno del festival: un gentile invito non si rifiuta mai!

Ho avuto occasione di verificare in prima persona il loro modus operandi partecipando ad alcune loro attività e due sono le caratteristiche che mi sono subito balzate agli occhi come degne di nota: In primo luogo la forte energia creativa, la voglia di fare, di mettersi sempre in gioco mantenendo sempre elevati gli standard professionali.
In secondo luogo l’assenza della rivalità e del desiderio di primeggiare, come se tutti avessero deciso di mettere a tacere il proprio ego a buon pro degli interessi collettivi: non ci sono prime donne (e nemmeno primi uomini). Posso affermare di aver assistito se non ad un miracolo quanto meno ad un’ incredibile alchimia: la presenza sui set di più registi,  più direttori della fotografia,  addirittura la presenza di più set all’interno della stessa location… Tutti spinti da fortissimo spirito di collaborazione, nessun rancore o rivendicazione, solo tanta voglia di lavorare, insieme. Che dire: Cineasti del mondo unitevi, pare che sia possibile.

All’interno di Visioni Italiane, i Cineasti Arcobaleno hanno escogitato maniere decisamente non convenzionali di far sentire la loro voce, portando alle volte la performance live all’interno della sala cinematografica – sede quasi per antonomasia dello spettacolo riprodotto. Il primo giorno hanno fatto sfilare in sala la Santa Insolvenza, mostrando le immagini dell’occupazione del cinema Arcobaleno. Il secondo giorno hanno toccato l’argomento degli spazi, proiettando il cortometraggio Cineasti in Valigia ed invadendo con le loro valige la sala Mastroianni del cinema Lumière. Di notevole impatto l’intervento del terzo giorno, in seguito alla proiezione degli spot sui mestieri del cinema a rischio di estinzione, quando tutti insieme sono saliti sul palco e, traditi a momenti da una genuina emozione (e per fortuna! Perché non so voi ma io sono stufa della gente che parla in pubblico come se leggesse il gobbo e non fosse minimamente coinvolta da quello che dice), hanno chiesto uno spazio ed un aiuto da parte di chi di competenza per continuare a fare cinema a Bologna, annunciando un imminente richiesta di confronto con le istituzioni nel quale venga chiarito una volta e per tutte se la produzione cinematografica è ancora oggetto di interesse; In caso contrario, visto che le valigie le hanno già fatte, decideranno di conseguenza se restare -  valorizzando il territorio (nda) – o partire per lidi meno ostili.
L’ultima proiezione è stata quella di due puntate della “Soap Opera” Il Morbo di Kino,  al termine della quale alcuni membri del collettivo, mescolati tra il pubblico in sala, hanno iniziato a manifestare i sintomi del morbo (una malattia che, nella puntate della soap, colpisce i lavoratori bolognesi del cinema e che si manifesta con violenti spasmi, delirio, e la tendenza ad invocare celebri registi russi).

Ma a destare il maggiore interesse è stato senz’altro il cinema più piccolo del mondo (6 posti a sedere e 4 in piedi, mi pare). Realizzato ad hoc all’interno di un furgone e parcheggiato nel cortile del cinema per tutta la durata del festival. Il kino-truck, ha trasmesso i filmati delle assemblee, i cortometraggi realizzati fino ad ora ed ha offerto la possibilità di lasciare videomessaggi con pareri ed opinioni. Oltre ad avere una discreta fila di persone incuriosite davanti al suo ingresso, ha fatto nascere al suo esterno uno spontaneo salotto sede di confronti, public relations e contatti.

Bravi ragazzi! Questo il link al loro sito dove è possibile trovare maggiori informazioni http://www.kinodromo.org/  

Di seguito qualche foto.


sul set


salottino avanti al kino-truck


bloccando l'entrata!


Kinodoromo

venerdì 24 febbraio 2012

Kinodromo

E stasera, stufa di redigere contenuti per il blog che plachino il mio orror vacui, mollo tutto e me ne vado al Lumiere dove è in corso il festival Visioni Italiane. In realtà la mia attenzione è calamitata dai Cineasti Arcobaleno e dal loro Kinodromo. Di tutto questo vi parlerò più avanti, per il momento mi limito a condividere l'articolo che ho scritto su di loro tempo fa, sempre pubblicato dalla fedelissima rivista "Gagarin,. Orbite culturali" nel numero di gennaio 2012 (http://www.gagarin-magazine.it/)

Buona serata a tutti!


Cineasti indipendenti



Accadde in novembre: I ragazzi di Santa Insolvenza – un collettivo di giovani che operano soprattutto contro il precariato -  occuparono il Cinema Arcobaleno. Per quattro giorni ridettero vita ad una storica sala cinematografica nel cuore di Bologna e da tempo in disuso, restituendolo così, anche se per breve tempo, alla comunità. Diverse realtà del cinema indipendente bolognese offrirono la loro collaborazione. Ne seguirono tre notti di proiezioni gratuite e aperte a tutti: un’ occasione di condivisione tra pubblico e operatori del settore, senza filtri, senza censure e senza compromessi. La sala era strapiena. Un sogno.
Ma il sogno finì con un brusco risveglio: i ragazzi di Santa Insolvenza ebbero lo sfratto e il cinema Arcobaleno fu di nuovo chiuso. Era dunque stato davvero solo un sogno? Qualcuno non era d’accordo…

Il detonatore è stata una semplice mail, fatta girare tra i vari operatori degli audiovisivi presenti sul territorio: un appello lanciato da qualcuno che aveva partecipato al sogno e riteneva fosse possibile trasformarlo in realtà, e non solo per pochi giorni. La risposta non si è fatta attendere: in massa gli operatori degli audiovisivi hanno risposto alla chiamata alle armi dando corpo e voce ad un Movimento.
Sono circa un centinaio. Attualmente si sono divisi in gruppi operativi al fine di costruirsi un identità collettiva e si nutrono del proprio entusiasmo, interrogandosi sul futuro del loro lavoro, sulla possibile riqualifica degli spazi e sul collocamento di prodotti che raramente trovano spazio nel main-stream.

Già compaiono i primi contenuti: Proprio in questi giorni il web è stato invaso da video virali Il primo è stato “Lo strano caso degli uomini in valigia”, volto a sensibilizzare sulle tematiche dello spazio e delle risorse. Sullo sfondo è chiaramente visibile il cinema Arcobaleno con la serranda abbassata.
Il secondo video a fare la sua dirompente comparsa sulla rete è in realtà un progetto di ampio respiro: una “soap opera” intitolata “Il morbo di Kino”. Un morbo che si diffonde portando al delirio i poveri cineasti, già esasperati dalle difficili condizioni lavorative.
Entrambi i lavori hanno avuto grande visibilità, non solo sul web ma anche sulla stampa: addirittura un fake allarmistico presenta il morbo di Kino come una vera patologia che costringe al ricovero ospedaliero due registi.

Attendiamo con ansia il seguito della storia e i possibili eccitanti sviluppi!

Sara Kaufman. "Gagarin. Orbite culturali" gennaio 2012




The Iron Lady


Sono andata a vedere The Iron Lady con la strepitosa Meryl Streep. Nonostante fosse lunedì sera, lo spettacolo delle dieci e mezza e io fossi reduce da una giornata massacrante, il film è riuscito a tenermi incollata allo schermo per tutta sua durata (cosa che, ultimamente, succede sempre più di rado, chissà perché…).

Il film ci mostra una Margaret Thatcher ormai anziana, alle prese con la demenza senile, con la perdita di potere e con l’inevitabile declino, ma determinata a non cedere all’età (figuriamoci!).
La vecchia Maggie soffre di allucinazioni, dialoga col marito morto ormai da tre anni, si rifiuta di svuotare l’armadio del defunto, si dimentica dove sono i figli e cade vittima dei ricordi.
Piano piano inizia a rivivere il suo passato, la sua infanzia di figlia di un droghiere, l’ammissione all’università di Oxford e la vertiginosa ascesa politica.

Decisamente inusuale la scelta della regista Phyllida Lloyd: dare risalto alla sfera intima della Thatcher, al suo rapporto con i figli e col marito. Rappresentare una donna resa fragile dall’età e dalle sconfitte.
Un tentativo, forse, di ammorbidire la Lady di ferro: la donna più odiata del suo tempo, responsabile della chiusura di miniere e acciaierie, del più alto tasso di disoccupazione mai visto, sostenitrice della pena di morte, della legge 28 contro gli omosessuali. La donna che ha mandato a morire i soldati britannici nelle Falklands, che ha lascito morire dieci appartenenti all’Ira durante uno sciopero della fame, che approvava l’uso della violenza da parte dei poliziotti nei confronti degli operai in sciopero davanti alle fabbriche e che, nonostante tutto questo, è riuscita a farsi eleggere per ben tre mandati.
Il personaggio comunque, non ne esce a mio avviso snaturato, anzi, la scelta registica e drammaturgica ne alimentano ancora di più la natura ambivalente facendo emergere il potentissimo carisma del personaggio il quale (grazie anche alla potenza straordinaria dell’attrice che la interpreta) riesce in alcuni momenti anche a fare presa su di noi spettatori posteri.

Ma una domanda mi sorge spontanea: The Iron Lady è arrivato poco dopo il film di Clint Eastwood, J. Edgar, sul capo dell’ FBI Hoover. Anche in questo caso il personaggio era rappresentato in chiave decisamente insolita, con grande attenzione alla sfera privata e sentimentale. Com’è che ultimamente è diventato così di moda fare film su personaggi così, per dirla in maniera diplomatica, controversi? Qual è il messaggio?




Vignetta di protesta contro la Lady di ferro

Profughi, fumetti e teatro


Vi  racconto una storia. La storia comincia con la mia amica Agata Matteucci, storica compagna di follie e collega in deliri vari, la quale, nel lontano 2009, ha la brillante idea di pubblicare un libro. E lo pubblica davvero: “Leo & Lou”, un libro a fumetti che raccoglie 50 tavole autoconclusive che vedono come protagonisti una giovane coppia (Leo e Lou, per l’appunto). La mia amica Agata, mente geniale e sublime disegnatrice, ha però un piccolo problema che rischia di compromettere la promozione del libro: detesta parlare in pubblico! Ma, trattandosi come precedentemente scritto di una mente geniale, escogita prontamente un’ altrettanto geniale soluzione: chiama a rapporto la sua amichetta Sara (cioè io), attrice e notoriamente esibizionista, e le propone di vestire i panni della dolce Lou e di realizzare un piccolo spettacolo teatrale utilizzando alcune tavole del libro. Nasce così “Leo & Lou. Opposti contrapposti”, che vede Agata come regista, Sara nel ruolo di Lou e il tenebroso Vittorio Montipò (in seguito sostituito con l’affascinante Nicola Borghesi) nel ruolo di Leo. Unici elementi scenici un letto (o quanto di più simile) ed un televisore (più o meno funzionante). Lo spettacolo debutta presso la libreria Betty & Books. Seguono innumerevoli repliche in giro per la penisola, delle quali l’ultima risale a settembre 2011.

Tempo dopo Sara e Agata, avendoci preso gusto, danno vita al Collettivo Indipendente Teatro dei Profughi: continuano ad esplorare il connubio tra teatro e fumetto, organizzano eventi artistici interdisciplinari (come dimenticare il mitico Favarama e la rassegna invernale Favanilia), tirano in ballo numerosi altri artisti (in particolare la mitica Bea http://hellobea.blogspot.com/) e realizzano un’altra performance: La scarlatta lettera. Quest’ultima, decisamente diversa da Leo & Lou, è ispirata al celebre romanzo di Hawthorne ed è un libero adattamento della poesia di Pasolini per Marilyn Monroe. Regia, drammaturgia e live act della cupa Sara, vede Agata alle prese con il live painting mentre Luca Garuffi (dj Lagar) si cimenta in un live set.

Il Teatro dei Profughi tornerà presto su questi schermi, intanto qualche foto e il link al sito di Agata, decisamente più completo ed esaustivo del mio!   http://www.agatamatteucci.com/




Leo&Lou



La scarlatta lettera




Tableau Vivant
(installazione e live painting presso Vanilia&Comics)

Torna in scena Fortebraccio Teatro con Ubu Roi

Condivido con gioia e con un sentito in bocca al lupo (oppure con un sentito "merda", come si dice nell'ambiente) quanto notificatomi dall'ufficio stampa della compagnia Fortebraccio Teatro: Roberto Latini (attore e regista romano, nonchè direttore del Teatro San Martino di Bologna) torna in scena con la sua ultima produzione, Ubu Roi di Alfred Jarry, questa volta accompagnato da numerosi altri attori.
Le prossime date dello spettacolo sono:

28 febbraio presso il Teatro Rasi di Ravenna

1,2,3 marzo presso il Teatro delle Passioni di Modena http://www.emiliaromagnateatro.com/

21, 22, 23, 24 marzo presso il Teatro India di Roma http://www.teatrodiroma.net/

Consiglio a tutti quanti, e soprattutto a me stessa, di non perderlo!


Ubu Roi                                                  





Già che ci sono colgo l'occasione per farmi un po' di sana pubblicità e condividere anche una recensione redatta dalla sottoscritta per il precedente spettacolo di Latini, Titanic, pubblicata sul numero di ottobre 2011 della rivista "Gagarin, orbite culturali" http://www.gagarin-magazine.it/




Noosfera Titanic.
Una produzione di Libero Fortebraccio Teatro
Di e con Roberto Latini

Che cos’è la Noosfera? Uno spazio? Un tempo? Oppure la negazione di spazio e tempo? Qualunque cosa sia viene ricostruita sul palco attraverso la scena nuda, spoglia. Pochissimi gli elementi presenti. Spariti i microfoni, le distorsioni vocali ed i congegni elettronici e scenografici che hanno caratterizzato molte sue precedenti produzioni. Sparito tutto quanto. Rimane solo la recitazione, la finzione dichiarata. Il Teatro. Ma anche il teatro stesso, quanto a lungo riuscirà ancora a reggersi in piedi? quanto ci vorrà prima che crolli miseramente in testa all’attore, seppellendolo per sempre? E siamo proprio sicuri che non sia addirittura già crollato?
 “Rompete le righe”. Così si apre Noosfera Titanic, il secondo spettacolo, dopo “Noosfera Lucignolo” del nuovo percorso di ricerca firmato Fortebraccio Teatro. Ancora una volta un’ unico attore: Roberto Latini. Solo. Un vecchio telefono rappresenta l’unico ingannevole contatto col mondo. L‘ acqua, dentro cui Lucignolo arrancava verso nuove possibilità, è stata sostituita da un mucchio di terra bianca e opaca. Un sottile velo nero separa l’attore dal pubblico.
Ancora una volta: “Rompete le righe, rompete le righe”. E ancora, ancora, finchè la voce non viene spezzata dal pianto. Inutile fingere  Inutile raccontarsi che non è successo niente, inutile tentare di rassicurare: Il Titanic sta affondando, trascinando a fondo un’intera generazione di sognatori. Un uomo alla deriva della sua solitudine, simbolo di una civiltà che naufraga. Un attore che ha visto perfettamente arrivare l’iceberg, che ha sentito benissimo lo schianto e che ora non può fare nulla se non continuare a recitare, come l’orchestra del Titanic che suona fino all’ultimo istante, mentre il mondo affonda nella sua stessa melma.
Una figura osserva dall’alto e ride, impietosa e beffarda mentre la sofferenza si fa via via più manifesta. Gli interventi musicali e sonori di Gianluca Misiti contribuiscono a creare un’ atmosfera lugubre, sospesa, surreale.
Un grido di dolore, dall’inizio alla fine. A volte Il grido tenta di amplificarsi con un megafono e di raggiungere finalmente tutte quelle orecchie sorde che si ostinano ad ignorare la tragicità degli eventi, ma lo slancio vitale viene troncato sul nascere. Ed è un gridare alla vita anche lo scavare forsennatamente nella terra per tentare, forse, di salvarsi. Ma dopo essersi sollevata in aria, la terra ricade inesorabilmente simile ad una pioggia bianca ricoprendo la scena, sporcando l’uomo e confondendo la realtà.
Alla fine dello spettacolo, mentre Roberto Latini viene applaudito con sincero calore dal pubblico, io mi ritrovo a ricordare una battuta pronunciata dallo stesso Latini, in suo vecchio spettacolo. Le parole, sia pur dette a suo tempo in un contesto molto diverso, mi risuonano nitidamente nella testa: “Tienimi. Tienimi come quando fa paura”.


Sara Kaufman, "Gagarin, orbite culturali", ottobre 2011


                                                     

please fasten your seat-belt


Vago per la città in cerca di ispirazione, fedele al buon vecchio D. il quale sosteneva che la bellezza salverà il mondo. Inseguo l’arte, fermamente convinta del suo valore estetico, sociologico e politico: in particolare il teatro, la moda e la fotografia.
Fumo, mangio cioccolata, eccedo col rossetto. Mi innamoro di tutti, gioco con gli specchi e con gli orecchini.
Sogno molto, ma i sogni più belli cominciano sempre in sala, quando le luci si spengono, la gente si zittisce e lo schermo si illumina.
Sono nata in estate nella capitale, odio il freddo e amo le metropoli. Mi addormento cullata dal rumore delle macchine e ho paura del buio. Da grande voglio fare la zingara.
Credo nel colore nero, nelle tinte per capelli, nelle lacrime, nelle urla, nei libri e nella musica. Ho creduto a lungo nel punk e nelle calze a rete, poi mi sono svezzata ma l’odore di quel periodo lo porto ancora addosso.
Logorroica e lunatica, a volte sento il bisogno di raccontare e di raccontarmi, di condividere quello che mi piace e mi interessa,  quello che mi emoziona e quello che mi fa schifo.
Questo è il mio blog: welcome on board!

Sara K.