domenica 25 marzo 2012

Dell'arte, del suo valore sociale, e della sua meravigliosa inutilità


Forse qualcun’ altro oltre a me avrà notato la tendenza generale che accomuna ultimamente festival, rassegne, concorsi e progetti artistici di varia natura: sempre più spesso sono caratterizzati da un elemento di valenza sociale. Non mancano di certo i temi umanitari e sociologici ai quali interessarsi e sui quali incentrare l’argomento di un festival o un bando di concorso, per non parlare di alcuni aspetti politici tipo l’ormai pluricitata democrazia partecipata. Gli argomenti più gettonati in assoluto riguardano comunque le tematiche ambientaliste.

Tutto questo potrebbe essere visto in maniera positiva: in linea di massima è infatti un bene che l’arte si metta al servizio di una causa senz’altro nobile come può esserlo l’ecologia ed utilizzi il suo potenziale in ambito comunicativo, aggregativo e mediatico per far passare messaggi importanti anche attraverso canali non convenzionali. Sono certa che la maggior parte degli enti che si occupano di promuovere l’arte come mezzo espressivo utile per le tematiche sociali, e che l’ adoperano come cassa di risonanza per temi di natura sociologica, sono armati delle migliori intenzioni e senza dubbio degni di lode.

Onore al merito quindi. Ma è sempre così?

Davanti ad una mole considerevole di progetti artistici legati a temi sociali non riesco a non essere colta da qualche perplessità. Per quanto sia vero che quelle che prima potevano essere considerate semplicemente buone pratiche ora stanno diventando emergenze, ed è quindi importante diffondere un certo tipo di cultura consapevole e creare occasioni di riflessione, mi sembra che abbinare sempre la produzione e la diffusione artistica ad una qualche causa sia un po’ pretestuoso. Dato il contesto storico nel quale ci troviamo, ovvero un’ epoca segnata dalla crisi economica e caratterizzata da politiche culturali decisamente spigolose, sembrerebbe quasi che l’arte abbia diritto ad essere valorizzata solo se legata ad uno scopo sociale e non possa permettersi di essere fine a se stessa.

Uno dei rischi è che pur di affrontare tematiche sociali, che a quanto pare sono il sine qua non della produzione artistica, si diffondano argomenti errati o comunque non sufficientemente approfonditi, cadendo nelle trappole della superficialità e dei luoghi comuni. Una sorta di “green washing” artistico. Quello che invece ormai più che un rischio sta diventando una realtà oggettiva è la mancanza del dovuto riconoscimento all’arte in quanto tale.

L’arte non ha già di suo un fortissimo valore sociale? Il valore politico, storico ed educativo non sono anch’essi valori sociali? E il sacrosanto valore estetico?  Non meriterebbe quindi di essere comunque valorizzata anche quando non tratta temi nobili come la green economy o le catastrofi belliche? Non è già di suo nobile? L’arte, e la cultura in generale, non sono forse quello che distinguono l’uomo dagli altri animali?

Un artista ha diritto di sentirsi socialmente utile solo se le sue opere affrontano determinati argomenti? E la programmazione artistica (festival, rassegne culturali ecc) è degna di nota –nonché di finanziamenti- solo se promuove determinati contenuti? Se facciamo un passo indietro nel tempo, non è forse stato uno dei più grandi artisti della storia a definire l’arte come qualcosa di inutile? Io penso che ciò nonostante il mondo risentirebbe della mancanza delle opere di Oscar Wilde!



martedì 20 marzo 2012

Hysteria. L'eccitante storia della nascita del vibratore


Londra, 1880. Il giovane dottore Mortimer Granville lotta per imporre le moderne e rivoluzionarie idee della medicina (tipo lavarsi le mani e cambiare tutti i giorni la fasciature) all’interno di ospedali ed ambulatori, gestiti però da medici fedeli alle vecchie tradizioni. Trovandosi così disoccupato per l’ennesima volta finisce per bussare alla porta del Dottor Dalrymple, specializzato in medicina femminile ed in particolare in una cura “manuale” per l’isteria.

La maggior parte delle donne dell’upper class sembra essere afflitta da questo male (che, come vedremo più avanti, altro non è che una manifestazione di noia o di insoddisfazione sessuale, per la quale, in effetti, la masturbazione può rappresentare talvolta un buon rimedio!) e il povero Dottor Dalrymple non è più fisicamente in grado di “soddisfare” tutte le sue pazienti. Decide così di avvalersi dell’aiuto di Granville.

In breve tempo il giovane Granville si ritroverà: alle prese con un’orda di pazienti insoddisfatte, a gestire una relazione platonica con Emily Dalrymple (figlia del dottore e modello di virtù), a cercare di contenere gli eccessi di Charlotte (sorella di Emily, socialista, rivoluzionaria e suffragetta) e, non ultimo, vittima di dolorosissimi crampi alla mano che rischiano di compromettere notevolmente la sua attività.

Proprio quando la situazione rischia di precipitare Mortimer, durante una visita al suo amico Edmund appassionato di elettronica, si ritroverà a giocherellare distrattamente con l’oggetto, camuffato da splolverino elettrico, che diventerà presto la soluzione ai suoi problemi “manuali” nonchè il giocattolo preferito di tante tante tante donne.

Il film, visione molto romanzata della nascita del vibratore, è stato tacciato dalla critica di essere un po’ troppo grezzo, superficiale e naif. Inutile dire che io invece ho riso dall’inizio alla fine. Ho riso per il fare scientifico con cui il Dottor Dalrymple illustra le tecniche masturbatorie al suo giovane assistente, ho riso davanti alla splendida interpretazione di Rupert Everett , ho riso davanti all’ironica ed appassionata visione del mondo e della donna di Charlotte Dalrymple, ho riso per Molly Leccalecca, ho riso all’idea del vibratore nato proprio nella pudica Inghilterra Vittoriana ed ho riso all’idea che la Regina Vittoria in persona ne facesse uso.

Il trailer di Hysteria

Ma soprattutto ho riso di soddisfazione perchè finalmente il main strem si è degnato di offrire un prodotto che affronta le tematiche della sessualità femminile e della condizione della donna in generale in maniera giocosa ed ironica, senza impantanarsi in banali stereotipi e psicologia spicciola e concentrandosi su un punto focale: il piacere. E finalmente il vibratore viene presentato come oggetto di uso comune, in voga da secoli e geniale nella sua praticità, e non come peccaminoso strumento del male!

"Not everyone loves football" : Promemoria per gli europei..

giovedì 15 marzo 2012

Sara K. goes on Style!

Per qualche strana coincidenza astrale mi è stato proposto di gestire un blog sul portale della rivista Glamour. Ergo mi destreggio attualmente tra due blog, cosa decisamente inusuale per una che, fino a poco tempo fa, non aveva facebook!

Ho chiamato il blog Smokey Eyes, in onore del celebre stile di maquillage tanto in voga adesso, ma anche delle celebri nottate fumose e del trucco sbavato della mattina dopo tanto in voga da sempre.

Questo è il link al blog numero due:  http://smokeyeyes.style.it/  Se vi va dateci un'occhiata.

E questo è il mio ultimo post che ho pubblicato su Smokey Eyes,  un'affascinante vicenda accadutami sul lavoro che dal titolo
"L'amore al tempo dei convegni: Il conte Vronskij è ancora tra noi".


Durante un convegno internazionale nel quale lavoravo in qualità di interprete e pr ho conosciuto una donna. Una donna molto affascinante, per la precisione: bella, intelligente, giovane ( 32 anni) ma già con una bella carriera. Una donna ambiziosa, piena di talento ma al tempo stessa simpatica e alla mano. Si chiama Kathy ed è del Canada. Un paese dove, incredibilmente, anche le donne giovani hanno la possibilità di fare splendide carriere, godono delle stesse opportunità degli uomini e, grazie a congedi per la maternità lunghi e a stipendi ottimi, hanno la possibilità di conciliare perfettamente il lavoro con la famiglia. Il lavoro. E l’amore?

Io e Kathy ci siamo subito piaciute. Abbiamo lavorato insieme per quattro giorni e per quattro sere ho portato fuori lei e i suoi colleghi, occupandomi della scelta e della prenotazione dei ristoranti, della scelta del cibo e dei vini, di spiegare ai camerieri che avevano tutti bisogno di ricevute separate per il rimborso spese aziendale, di controllare che i caffè fossero caffè lunghi e non  espressi in quanto i canadesi rabbrividiscono alla sola vista dei nostri “ristretti”, di chiarire che il limoncello anche se viene servito in bicchierini piccoli non è uno “shot” e di cercare pub che stessero aperti fino a tardi.

Il  lavoro diurno era molto serio ma le serate decisamente informali.

L’ultima sera, quando ogni restrizione lavorativa era finita e i rapporti interpersonali erano finalmente liberi da ogni convenzione, siamo finiti dopo cena (eravamo circa una quindicinali cui un’unica italiana e cioè la sottoscritta) in un pub in centro. L’orario della dignità era passato da un bel po’: era circa l’una di notte e tutti avevano in corpo un bel po’ di alcol. Anche io stavo cominciando a rilassarmi, mi ero concessa un gin-tonic e mi stavo finalmente dedicando ad approfondire la conoscenza di un simpatico dirigente dell’area vendite (sposato e con figli, figurati…).  Con la coda dell’occhio vedo la bella  Kathy, anche lei intenta ad approfondire conoscenze. In maniera molto più intima però di quanto non stessi facendo io col mio salesman. In parole povere si stava scambiando notevoli effusioni con quello che ho riconosciuto essere un suo buyer di nome Alan. Ho sorriso tra me e me ammirata per l’intraprendenza di Kathy e ho continuato la mia serata destreggiandomi come meglio potevo tra businessmen sbronzi.

Un paio d’ore più tardi (si, erano davvero le tre!) sono uscita dal pub per fumare una sigaretta e lì ho visto Kathy. Tutta sola e visibilmente scossa. Cosa cavolo era successo alla mia protegeè? E dove accidenti era Alan? Mi sono avvicinata a Kathy e lei scoppiata in lacrime. Mi ha raccontato tra un singhiozzo e l’altro che Alan, dopo aver flirtato con lei per una settimana e dopo averla baciata, le aveva detto che la loro storia non poteva continuare perché in Canada lui aveva già una ragazza con la quale stava da un mese e che aveva lasciato il suo lavoro per lui.

 “ E che lavoro! Faceva la shampista! Ma perché sono sempre L’Altra Donna, l’amante? È sempre così, gli uomini flirtano con me, vengono a letto con me e poi tornano dalle loro brave fidanzatine! Perché mi ha baciato se non vuole stare con me? Io sono un essere umano, ho dei sentimenti, voglio sposarmi e avere dei figli. Ho così tanto da dare e finisco sempre per fare l’amante!”

E a quel punto mi sono resa conto che quando si tratta di uomini tutto il mondo è paese. Kathy. Bella, sensibile ed intelligente, era semplicemente caduta nella trappola più vecchia della storia. Ma non aveva mai letto un libro? Non aveva mai visto “ Sex & the City”? e non lo sapeva che i convegni internazionali sono per eccellenza il teatro più idoneo per questo genere di commedia? Uomo d’affari in viaggio all’estero stufo della routine incontra bella donna in carriera e coglie l’occasione per crearsi un’interessante diversivo. E certo che non è giusto! Certo che è un bastardo! Ma la domanda è: cosa ti ha fatto pensare che potesse non esserlo?!

Ma quello che mi sembrava più surreale e che la povera ragazza non si capacitasse del fatto che un uomo potesse preferire stare con un’ex stampista, probabilmente non particolarmente attraente anziché con lei. Come se non fosse un dato di fatto infinitamente provato che gli uomini spesso e volentieri vogliono esattamente quello: una donna non troppo bella (così non la devono controllare) e senza carriera (così non sarà mai più potente di loro) e che, possibilmente, sia disposta a piantare il suo lavoro per favorire la loro carriera.

Siamo nel 2012 e gli uomini, rincresce dirlo, sono ancora terrorizzati da donne come Kathy. Non sono in grado di gestirle, hanno paura che li schiaccino e che mettano a repentaglio la loro virilità e non capiscono che una donna così vuole solo essere trattata da pari e godersi la sua indipendenza senza per questo rinunciare alla propria femminilità: non sono delle virago e non hanno nessun interesse a calpestare la virilità dei loro compagni. Sono donne, tutto qui.

Ma che spreco, che amarezza, vedere una donna così eccezionalmente fantastica ridotta in lacrime da uno dei tanti convenzionali stronzetti in circolazione.
A Kathy, e a tutte le Kathy del mondo, dal basso dei miei 28 anni, posso solo dire di rimanere fedeli a loro stesse perché il mondo ha bisogno di donne come loro. Che ci sono donne più giovani (tra le quali io) che le ammirano e le stimano e che non può essere uno squallidino qualunque a metterle in crisi. E che probabilmente da qualche parte ci sono anche uomini in grado di amare e rispettare una donna indipendente, e vale sicuramente la pena di aspettare di incontrarne uno -col rischio di non incontrarlo mai-  piuttosto che tradire i propri sogni e la propria natura per uno che non merita le lacrime di una donna, men che meno di una donna in gamba.

martedì 6 marzo 2012

c'è chi fa il poliziotto, e chi va rapinando pusher


Ed ecco che il mio martedì mattina, già macchiato dalla pioggia, è stato definitivamente rovinato dalla lettura del giornale. In particolare, la notizia che mi ha definitivamente avvelenato la giornata è la seguente: l’arresto di quattro poliziotti con l’accusa di rapine e violenza nei confronti di spacciatori maghrebini.

Ha un bel dire Merola che questa volta “non è la uno bianca”. No, certo che non lo è, nel senso che non siamo ancora a quel livello disgustoso di violenza ed abuso di potere, ma è inevitabile che reati di questo tipo, a Bologna, facciano pensare immediatamente ad una delle pagine di cronaca cittadina più nere.

Ma il problema non è solo lo spettro della uno bianca, quello che mi avvelena e il razzismo su cui si basano questi eventi. Già, perché in una città che, soprattutto sotto la giunta Cofferati, si è riempita la bocca di parole come “legalità” e “degrado” fino a farle diventare quasi degli insopportabili luoghi comuni, chi mai darebbe ascolto ad un pusher nordafricano che cerca di denunciare violenza e rapina per mano delle forze dell’ordine? Le stesse forze dell’ordine che qualche anno fa lanciarono una campagna in stile “chi difende i difensori”, come se le pistole non fossero loro ad averle. Uno degli uomini, sequestrato aggredito e rapinato, si è recato in questura a sporgere denuncia, ma non gli è stato dato ascolto.

E io, pur essendo troppo giovane per ricordarmi bene della uno bianca, ricordo benissimo altre vicissitudini. Ricordo la mia adolescenza trascorsa vivendo nella celeberrima via Petroni. Ricordo di quando c’erano le risse sotto casa, con coltelli e bottiglie. E io avevo imparato che dovevo sì chiamare la polizia, ma non dovevo dire che erano extracomunitari, altrimenti non sarebbero mai intervenuti e avrebbero lasciato che si uccidessero a vicenda.

E ricordo, già che ci siamo, forze dell’ordine decisamente poco accoglienti, che quando ti rivolgevi a loro per fare una semplice segnalazione manco ti ascoltavano se prima non ti facevi identificare. Ricordo una ragazzina tanto punk quanto innocua perquisita per strada (controllo preventivo), o costretta ad alzarsi se si sedeva per terra – dato che non ci sono panchine - in Piazza Verdi a godersi un pomeriggio di sole (decreto contro il bivacco).

Ricordo infine che in via Petroni non mi è mai successo nulla, né di giorno né di notte. E non grazie alle cinquanta volanti paralizzate in Piazza Verdi che non si muovevano mai neanche di un millimetro e che non si sognavano di andare a dare un’ occhiata a quello che succedeva esattamente alle loro spalle. Ma grazie al fatto che in via Petroni c’era sempre gente comune disposta ad intervenire se vedevano una ragazza in difficoltà. C’erano locali nei quali infilarsi se qualcuno ti seguiva e se nel cuore della notte per strada una donna urlava la gente scendeva a vedere cosa stava succedendo. Anche in pijama se necessario. E capitato addirittura che fossero i pusher stessi a redarguire un qualche loro particolarmente molesto “collega” e poi ad accompagnarmi fin sotto casa!

Chi difende i difensori? Chiedetelo ad una Bologna che si è più volte difesa da sola con la solidarietà e che oggi impallidisce davanti ad un tragico fatto di cronaca e ai brutti ricordi.

Ad onor del merito (o semplicemente dello scrupoloso svolgimento del proprio lavoro): Il procuratore aggiunto Valter Giovannini ed il sostituto procuratore Manuela Cavallo che hanno dato credito alle accuse mosse contro i loro colleghi e aperto l’inchiesta.

lunedì 5 marzo 2012

Balenciaga fall - winter collection 2012/2013


Gli anni 60 sono caratterizzati da un generale benessere economico e sociale. La gente risente ancora degli effetti benefici del boom economico, sta bene, è felice o almeno si sente in dovere di esserlo. Proprio in questo periodo storico inizia a manifestarsi l’idea della conquista dello spazio. L’universo, complice la Nasa, viene visto per la prima volta come raggiungibile: un luogo sconfinato, meraviglioso, che davvero un giorno potrà essere alla portata dell’uomo. Le persone, serene ed ottimiste, si concedono di sognare: si commuovono davanti al primo viaggio sulla luna, seguono con entusiasmo il lancio dei satelliti e guardano al futuro come all’espressione di massima potenzialità dell’uomo. Tutto questo andrà avanti almeno fino ai primi anni ottanta non risentendo particolarmente né del Vietnam, né del 68 né del 77. Gli uomini – e anche le donne, che finalmente raggiungono un certo tipo di emancipazione –continueranno a credere nel proprio potenziale e a guardare al futuro con grande fiducia ed aspettativa. La conquista dello spazio è un sogno finalmente concretizzabile che riempie l’umanità di orgoglio.
Poi cosa succede? Verso la fine degli anni ottanta inizia ad infrangersi il mito. Non tanto il mito dello spazio, quanto quello dell’operato umano: la coscienza ecologica mostra un pianeta gravemente danneggiato, le vicissitudini politiche ed economiche portano ad una crescente preoccupazione e, va da se, che quando si è preoccupati non ci si concede tanto tempo per fantasticare tra le stelle. Il sogno dell’uomo nello spazio comincia a sfumare e dopo le prime foto satellitari anche l’universo comincia a perdere un po’del suo fascino. Il 28 gennaio 1986 uno shuttle con a bordo anche una maestra di scuola esplode in volo sotto lo sguardo sgomento del presenti: se non è la fine di un sogno, ci andiamo decisamente vicino.
E oggi? Oggi c’è la crisi, la delusione, lo sconforto. Il futuro rappresenta perlopiù una minaccia tanto quanto il presenta rappresenta una condizione scomoda. Lo spazio e tutto il suo meraviglioso potenziale sembra ora più che mai lontano. Nell’era dell’insicurezza il passato rappresenta la stabilità e la tendenza generale, in particolare della moda, è quella di guardarsi indietro rievocando vecchi splendori con velata nostalgia. L’uomo non può non essere fortemente disilluso: destabilizzato si interroga sulla sua potenza e sulle sue prospettive. L’uomo.
E la donna? La donna va avanti. Procede inesorabile, fiera, se non altro, di essere donna. Abituata alle difficoltà e agli ostacoli, il futuro per lei è ignoto ma non si fa spaventare dall’incertezza. Quella di oggi è già la donna del futuro, di un futuro che fino a poco tempo fa sembrava irraggiungibile: bella nelle sue diversità, orgogliosa della sua femminilità, padrona delle sue decisioni in tutti i campi. Non teme né il giudizio né il confronto e rifugge gli archetipi, gli stereotipi e le etichette. Non si accontenta dei soliti canonici ruoli ma sperimenta, mescola, spazia. Incarna una femminilità multi sfaccettata, alla ricerca della propria individualità ed autodeterminazione.
Guardo la collezione autunno – inverno di Balenciaga, realizzata da Nicolas Ghesquière e ispirata a 2001: Odissea nello spazio e mi appare come un omaggio alla donna contemporanea e al suo avvenire. Non ci vedo né nostalgia né rimpianto, ma una ventata di ottimismo: lo spazio, simbolo di un futuro di sconfinata meraviglia, viene riproposto come una possibile iconica bellezza, ma la donna non è più patinata e monolitica come quella di Kubrick: è morbida, voluttuosa e valorizzata nel suo essere. Una donna che non ha paura, nemmeno degli alieni!

Di seguito foto della sfilata di Balenciaga a Parigi














venerdì 2 marzo 2012

Ubu Roi, Fortebraccio Teatro


Ubu Roi. 
Di Alfred Jarry

regia Roberto Latini
musiche e suoni: Gianluca Misiti
luci: Max Mugnai

con Robeto Latini, Savino Paparella, Ciro Masella, Sebastian Barbalan, Marco Jackson Vergani, Lorenzo Berti, Fabiana Gabanini, Simone Perinelli


Un pullman parte dall’autostazione di Bologna, e conduce il pubblico del capoluogo fino al Teatro Rasi di Ravenna, casa del Teatro delle Albe. L’atmosfera sul pullman è allegra e familiare, come se un gruppetto di persone più o meno intime tra di loro avesse deciso di andare a fare un salutino agli amici romagnoli, a prendere un tè dalle Albe: una piccola riunione di famiglia che tanto a teatro ci si fa’ e ci si vede e tutti si conoscono.

Appena arrivati al Rasi però la prospettiva cambia radicalmente: altro che riunione di famiglia, c’è una massa di persone tale che sembra di stare allo stadio ed io, spettatrice un po’ disillusa ed abituata ai teatri mezzi vuoti, non posso fare a meno di commuovermi e di pensare “allora c’è vita! Qualcuno ci crede ancora!”.

Fortebraccio Teatro porta in scena Ubu Roi, testo datato 1869 e scritto dal genio adolescenziale di Alfred Jarry: un testo che ha anticipato l’età delle avanguardie e del teatro dell’assurdo, diventato ormai un classico.

La storia narra le vicende di Padre Ubu, capitano dei Dragoni alla corte di Polonia il quale, spinto dalla brama di potere e soprattutto dalla sanguinaria madre Ubu, decide di uccidere il re (Re Venceslao) e tutta la sua corte, ritrovandosi così in breve a gestire un popolo in rivolta contro di lui ed una guerra. Molto della trama richiama il Macbeth, ma, a differenze dell’opera di Shakespeare, qui tutti i personaggi sono assolutamente grotteschi, esasperati, portati all’estremo della bassezza e dell’ingenuità. Inoltre la morale che alla fine emerge nel dramma shakespeariano qui è completamente assente.

Notte. Una grande luna illumina la scena dove un uomo siede di spalle, muto ed imobile. Piano piano la scena si popola di altri personaggi, tutti vestiti con lunghe tuniche bianche e con maschere glabre e deformi. I personaggi, tutti pescatori, siedono silenziosamente uno accanto all’altro e pescano nel vuoto della scena. Appesa all'estremità di ogni lenza vi è una salsiccia. Per ultimo entra un personaggio diverso, vestito in maniera differente che si affianca ai pescatori rimanendo però in piedi: appeso alla canna da pesca, al posto della salsiccia, ha un microfono. La scena è avvolta in un bianco quasi metafisico che andrà via via sporcandosi. Così inizia l’Ubu roi di Fortebraccio Teatro.

Roberto Latini, attore e regista della compagnia, abbandona (almeno temporaneamente) i suoi progetti solitari per tornare a danzare sulla scena insieme ad altri sette attori. L’assurdità del testo è notevolmente amplificata: le scene non seguono necessariamente una logica consequenzialità, i personaggi si alternano e si scambiano i ruoli giocando con maschere talvolta vere e talvolta frutto della recitazione, madre Ubu è un uomo coi baffi (un notevole Ciro Masella), il principe Bugrelao dimostra ben più dei suoi quattordici anni, la corona del Re Venceslao è un megafono, il suo trono una carriola e sulla scena appaiono e scompaiono oggetti senza un preciso significato apparente.

Roberto Latini veste il ruolo di un Pinocchio, sempre presente ma esterno all'azione: Una sorta di doppio, di coscienza della quale i personaggi di Padre e Madre Ubu sono completamente sprovvisti. Talvolta ha una catena legata al collo, oppure esegue un macabro passo a due con uno scheletro nero, o si avvolge in un drappo rosso svelandoci la violenza e la crudeltà delle bieche azioni dei protagonisti.

Il testo è infarcito di riferimenti a Shakespeare, non soltanto il Macbeth ma anche L’Amleto, la Tempesta e Romeo e Giulietta: Latini sceglie di enfatizzarle dando voce ai personaggi shakespeariani attraverso monologhi durante i quali la voce amplificata e la presenza del microfono con l’asta trasportano lo spettatore in un'altra dimensione. Da notare che nessuno di questi monologhi risuona come una pretestuosa citazione fatta a buon pro di un pubblico più o meno colto: tutti sono perfettamente contestualizzate, inseriti con precisione e frutto non di una volontà artificiosa ma di una forte urgenza; si potrebbe essere completamente digiuni di Shakespeare ed apprezzarne comunque la poesia.

La pièce viene letteralmente giocata dagli attori, che si divertono a passare da uno spazio all’altro, a crearsi dei limiti per poi violarli, a coreografare momenti corali per poi sporcarne volutamente la perfezione. Teli, macchinari di legno, maschere, costumi più o meno vistosi ed atmosfera a tratti quasi circense: tutto, richiama il gioco, l’artificio. Ma al tempo stesso risuona fin troppo reale in un’epoca in cui la guerra, la violenza, la sete di potere e l’immoralità non vengono mai prese troppo sul serio.

Tra un scena e l’altra due personaggi (un’orso e un’orsa), si inseguono in un corteggiamento rituale che mostra un amore tenero e naif, destinato però a concludersi nell’unico modo possibile in un mondo così violento.